Quando ti alleni ad osservare, ti ritrovi in un arcobaleno di colori di
cui non avresti mai immaginato l’esistenza.
Puoi, ad esempio, vedere che intorno tutto parla di ciò che cerchi, e così trovi sempre quello che ti serve, anche quando non sai che ti serve.
Sono circondato da carte antiche, ora che ripercorro una storia che forse non mi appartiene, e forse non so che senso abbia.
Eppure il racconto è ciò che sottolinea il significato di tutto quanto si materializza sotto i miei occhi con lo spessore del tempo che ha stemperato le tragedie: del tempo che ha dato significato ad attimi insignificanti; del tempo che ha costituito vite, abbattuto tabù, riordinato quello che l’essere umano imperfetto aveva smarrito, confuso, sbagliato.
Ma non ci sono sbagli, infine, se si pensa che, come possiamo scrivere erroneamente oggi il nome di un paese, soltanto per un refuso del computer galeotto o di un correttore automatico impertinente, possiamo anche leggerlo così, proprio così, in una carta topografica pergamenacea del Cinquecento, piuttosto che in un legato o in uno statuto comunale.
L’occhio si allena e si affina mano a mano che ripercorre sentieri andati, e i tratturi diventano dolci colline ricche di vigneti, mentre un’alba stemperata e quasi spenta si erge tra le nubi di un mattino a dipingere di serenità una vita snervata di tormenti che, apoteosi della tragedia, diventano un romanzo, una storia, magari anche una leggenda che racconteranno i posteri.
Nelle carte antiche ci sono pochi rilievi del terreno: soltanto i castelli e i siti più importanti, tracciati con quasi assoluta precisione affinché si conoscessero i corsi dei fiumi e le ubicazioni delle fortezze di prima o seconda linea per combattere coloro che si volevano impossessare della terra, dei diritti.
Ma quando qui spazio il mio sguardo intorno, noto l’assoluta precisione con la quale le battaglie hanno lasciato il posto all’armonia.
Le colline moreniche bisbigliano tra loro mentre vanno incontro al lago e i vigneti si adagiano sul fondo dell’occhio a tracciare cerchi concentrici di perfezione, che diverrà poi il riempimento di cantine ordinatissime dalle ampie corti, ricche di suoni e di feste, di solchi lasciati dalla storia: le nascite, le morti, i barili e i tini, le tinozze e la sagra dell’uva.
I colori sono tersi, l’aria perfetta, lo spicchio di acqua che emerge dalle torbiere uno splendido scenario, la corolla di un fiore che si fa sempre più bello mano a mano che la saggezza del tempo lo ammanta di nuove striature.
E poi la gente. La gente. Quella che mormora e schiamazza, che corre a raccolta per il rintocco delle campane, che adorna l’aia e la fa risuonare di voci, che veste di perbenismo e di fasulla umiltà, così come di coraggio e di gusto del vivere in un serpeggiante buon senso che va perdendosi negli anfratti dei parcheggi mancati e delle rivisitazioni modernizzanti dei mezzi di trasporto.
Mi guardo intorno. E sono ancora qui, sul terreno dei miei cari, a raccontarmi una storia come se fosse un libro, un romanzo di cui ho perso le tracce fino al giorno in cui non ho buttato l’occhio su una carta, una vecchia carta appesa su uno scampolo di muro in un non so bene quale ufficio.
In quel momento il mondo, fermandosi, ha preso a turbinare in modo così veloce da richiamarmi alla mente suoni e voci, musiche e ricordi che pensavo perduti nel calare del tempo, come un tramonto su un viale troppo lungo per poter ricordare appieno da dove si era iniziato a camminare.
Mi sono guardato a destra, mi sono guardato a sinistra: e ho deciso di non svoltare. E di intraprendere la strada maestra per incontrare il mio pensiero e il mio reale nelle pieghe dei fogli sgualciti di una storia, la mia storia, che non è altro che un romanzo qualsiasi. E perché no, inventato.
Traccio anch’io, allora, una cartina per seguire il mio percorso sperando di non deviare troppo e di non sbagliarmi, ché già le leggende non hanno bisogno di essere vere per esistere.
I miei occhi azzurri di chiara impronta nordica, diciamo olandese, si assottigliano per osservare meglio le tracce di un passato che non conosco e di cui pure so tutto.
Franza Curta, diceva Pierre Mortier nella “Carta du Bressan” e, per uno strano scherzo del destino era una carta di un olandese, datata Amsterdam 1710.
Terra dall’aria finissima, “fruttifera e piena di colline apriche e delitiose; e si accrescon le sue amate qualità per la riviera del lago d’Iseo che s’appartiene a questa parte”. Già. Il lago di Iseo. Le sue delicate brezze, l’armonia delle isolette che lo costellano fino ad innalzarsi sul monte dell’isola più amata, Montisola. E poi le terrazze di vigneti, gli ulivi, il verde che impera ovunque, anche dove costruzioni armate tentano di farlo scomparire.
“…è tutta una poetica visione di colline placide e ridenti, di vecchie case solatie, di sontuose ville signorili…”; “…nel suo grembo son vaghe ondulazioni di terreno, qua con cappellette e campanili in cima, là con casolari e boschetti; ed oltre la zona azzurra del lago d’Iseo, maestoso sull’opposta riva è il prospetto del Guglielmo, le cui cime sono tuttavia ammantate di neve. Strade lisce, belle, qual che inerpica, qual che scende, qual che costeggia il lago…”.
Una terra che è leggenda essa stessa, se si pensa che questo angolo di paradiso lo si deve alle preci di pazienti monaci che, a decine, hanno zappettato e bonificato una zona paludosa e buona forse solo per cacciare. L’aria che oggi respiro quieta era un tempo malsana; e soltanto la dedizione, qualche penitenza, la somma pazienza e determinazione dei frati hanno portato a questo splendore. Vorrei ricordarli ad uno ad uno, se solo ne sapessi il nome. Vorrei che rimanesse nella memoria dei più che ogni singolo stralcio di vita è il risultato di tutto quanto qualcuno prima di noi ha voluto e saputo lasciare. Qualcosa che resta per sempre, o almeno per più tempo di quanto non si riesca a vivere. Nessuno pensa più a tutti quei monaci o frati appartenenti alla badia di Leno, ai monasteri di san Faustino Maggiore, di santa Eufemia, dei santi Cosma e Damiano, o al monastero di Santa Giulia di Brescia.
Quel monastero che è nato già come una leggenda, voluto da Berengario per la figlia Ansa, ricco di privilegi e di possedimenti, di ogni sorta di ricchezza e anche dello strazio della sfortunata, e leggendaria anch’ella, Ermengarda. Quella che almeno ci piace ricordare o pensare così.
Tutti, insomma, cooperarono per la bonifica agraria per la quale il fisco regio longobardo aveva dato in assegnazione i terreni: e il risultato è questa meraviglia che ho attorno oggi.
Sembra che proprio alla franchigia fiscale, di cui godevano queste corti (Adro, Borgonato, Clusane, Colombaro, Cremignane, Nigoline, Timoline e Torbiato) protette dai Benedettini, dato il disastroso stato della zona, si dovesse il nome di zona franca, Franchae curtes. Secondo alcuni, tuttavia, questo misterioso nome avvolto nella leggenda, si può fare risalire a Carlo Magno il quale, dopo la conquista di Brescia nel 774, era accampato vicino a Rodengo nel giorno di San Dionigi, festa che egli aveva fatto voto di celebrare a Parigi. Cedendo alla nostalgia, l’imperatore decise che la zona venisse chiamata “piccola Francia” (Francia corta in italiano) e fece edificare un santuario dedicato al santo patrono della sua nazione.
Secondo un’altra leggenda, nel 1265 un’insurrezione popolare sfociò nell’espulsione delle truppe occupanti comandate da Carlo d’Angiò, al grido di “Francese fuori! Qui Francia sarà corta!”. Gabriele Rosa, famoso storico, dava di questo episodio un’interpretazione diversa, osservando che l’occupazione del re di Francia era stata breve (corta).
Ancora c’è chi pensa che tale nome sia dovuto alla condizione del volgo che, perennemente a curt de franc (a corto di soldi), indicava così la zona. Teatro di leggende di per se stessa, la Franciacorta ha il sapore delle cose che non si possono conoscere appieno, perché non ti è nota la porta di ingresso e puoi solo immaginare cosa ci sia dentro o dietro di essa, nel naufragio delle conoscenze perdute per sempre.
La data ufficiale del nome Franzacurta nei documenti, è univoca: il 1277, nello statuto municipale di Brescia, come riferimento all’area a sud del lago di Iseo, tra i fiumi Oglio e Mella. Già allora la zona era un importante bacino di rifornimento di vino per la città, la Valcamonica e la Valtrompia.
Alcuni paesi franciacortini sono stati riuniti nel 1928 sotto un’unica denominazione, Corte Franca, che comprende Bettolino, Borgonato, Bracchi, Budrio, Colombaro, Fornaci, Fornaci-Quattrovie, Gas, Sant’Eufemia, Timoline, Zenighe e Nigoline.
Nigoline, luogo di nascita della mia personale leggenda, deriva il nome da “novus”, “terra nuova” appunto, perché bonificata; ma alcune fonti affermano che forse il toponimo è il diminutivo di nuvulus o di nuculinae, “piccole noci”.
Il paese fu assegnato dai Longobardi ai monasteri di Leno e di Santa Giulia di Brescia e, in epoca successiva, alle corti dei monasteri di santa Eufemia e di san Faustino Maggiore con il titolo di san Martino, vescovo di Tours, dei Santi Cosma e Damiano; infine, ai vari priorati cluniacensi di Provaglio, Clusane e Colombaro.
Testimonianza di tutto quanto il mondo cattolico ha fatto sono le pievi e le santelle rimaste a ringraziare i santi, e i committenti, che venivano invocati in mancanza di altra speranza per sopravvivere, per scampare ad una carestia, ad una guerra, ad una pestilenza.
In paese, a Nigoline, le case nobili o patrizie delle famiglie che ricordano il corso inarrestabile della storia, sono molte da molto tempo, raggruppate attorno alle rovine del castello. Le più note sono i Nigolini, valvassori in origine del castello stesso. Poi i Da Iseo e i Della Corte, i Lana e i Fenaroli, accanto ai mitici Martinengo, testimoni delle battaglie sanguinose tra guelfi e ghibellini, gastaldi, come gli Oldofredi, del vescovo di Brescia; quindi, i Torri.
Ma la famiglia della quale voglio raccontare la leggenda è quella dei Vestali, possidenti di terreni ricchi di vigneti, fortunati, con le posizioni migliori sia per gli assolati che per le penombre, sia per i trasporti che per le vendemmie. Essi erano coloro che trovavano sempre manodopera, perché chiunque avrebbe voluto lavorare per loro. Le aie grandi con le cascine, che accoglievano lo sguardo dei visitatori soltanto quando i pesanti portoni si aprivano, stavano a dimostrare l’ordine e la potenza della casata. Da loro c’era sempre il salame a metà mattina e durante la giornata; la polenta scodellata, fresca e bollente, da enormi paioli di rame su piatti che sapevano di lisciva e di strofinacci grezzi. Non mancava mai il vino e l’abbondanza, sia che ci fosse secco che tempesta. Dai Vestali non ci si doveva mai preoccupare. Se serviva il vento per fare cadere le olive, il vento era dolce e deciso; se serviva la brina sui chicchi d’uva, c’erano le nebbioline delicate su gonfie gocce di rugiada. E se serviva il sole, l’acqua, la quiete, potevi essere certo che nei campi dei Vestali essi c’erano.
La famiglia Vestali era grande e unita, capace di respingere ogni avversità, soltanto se lo desiderava. E l’armonia imperava e si specchiava in quella delle colline, nella delicatezza delle pennellate che il tempo lasciava al cielo terso nel primo freddo autunnale.
Si diceva che il capostipite dei Vestali fosse un uomo che aveva combattuto fiere battaglie al fianco dei Veneziani, soprattutto nel periodo a cavallo dell’inizio del Cinquecento, quando, ragazzo, militava per i Marcheschi per difendere l’idea di repubblica che, più o meno bene, i Veneziani portavano avanti. Era stato propositivo durante il sacco di Brescia, nel 1512, quando le dispute tra bresciani che sostenevano la Repubblica e bresciani che sostenevano i Francesi avevano portato a lutti e tragedie senza precedenti. Non si sapeva bene da dove venisse e quale fosse la sua appartenenza: alcuni lo ricordavano come un orfano allevato dai monaci; altri dicevano che aveva avuto origini nobili ed il padre era morto in battaglia. Fatto sta che, difendendo la Serenissima tra le fila dell’esercito come semplice esecutore di ordini, si era meritato il premio di terreni importanti.
Tali possedimenti gli vennero assegnati nel 1535. Secondo alcuni, perché se li era appunto guadagnati sul campo; secondo altri, perché era l’amante di una contessa; secondo i più accreditati, perché aveva salvato la vita al doge, ma non aveva voluto che si sapesse in giro.
Doveva essere stato un personaggio positivo se era riuscito ad impostare così bene la vita per la sua famiglia, che fu ricca e serena per secoli, fino al finire dell’Ottocento.
Nel tempo, i suoi discendenti erano riusciti ad accrescere il patrimonio senza doverlo difendere con la spada. Erano stati ambasciatori o mercanti, persone rette, giuste e buone: e così avevano mantenuto ed accresciuto la stima ed il rispetto antico.
La grande degnazione familiare si leggeva negli occhi di ogni figlio, di ogni nipote. Tutti venivano adeguatamente istruiti da maestri domestici e la tradizione voleva soltanto famigli che avessero studiato: se non ne avevano la possibilità, la dinastia si impegnava a fornire istruzione, anche a costo di chiamare maestri dall’estero, che poi erano le regioni limitrofe.
Si parlava sempre, celiando, di un leggendario maestro bergamasco, che aveva guadato il fiume di nascosto durante una delle tante traversie che avevano segnato il rapporto di confine tra bergamaschi e bresciani. Si diceva che Manzoni avesse preso spunto dalle fughe di quel furbo maestro per avere il lavoro nella tanto ambita famiglia Vestali, per raccontare come Renzo se n’era andato appunto in quelle zone a cercare rifugio e lavoro.
Di solito, un tempo, a Nigoline come in ogni altra parte d’Italia, si raccontavano storie, vere o inventate da qualcuno bravo, accanto al fuoco, la sera; o si leggevano libri, per chi aveva la fortuna di saper leggere, ad alta voce agli altri; oppure, dalla lettura si prendeva lo spunto della conversazione, confrontando le gesta dei personaggi con qualche persona realmente esistita. E ciò consentiva di tramandare la tradizione di famiglia o di stemperarla con le storie dei romanzieri, tanto che attualmente non si sa più bene quale sia la verità e quale la leggenda.
Sarà stato per questo che tutto è divenuto leggenda, riguardo ai Vestali.
Sarà per questo che gli storici impiegano anni per scoprire nessi tra uno scampolo di tempo vissuto e l’altro, dalla stessa persona o da altri.
L’ultimo dei Vestali si chiamava Francesco, uomo autoritario e tutto d’un pezzo, che non solo fu in grado di mantenere i possedimenti della casata, ma che ne quintuplicò anche il potere economico, grazie ad una mente illuminata per gli affari. Prima ancora che il Consorzio Antifillosserico Bresciano diramasse la circolare dei primi di gennaio del 1901, Francesco aveva già recepito che era necessario innestare le viti locali con quelle americane per salvarle dalla malattia. Leggeva molto e riceveva posta da mezzo mondo, con ogni sorta di notizia e di aggiornamento su ogni aspetto della vita quotidiana. Aveva seguito i dibattiti degli esperti ed aveva provveduto, a sue spese, a procurarsi il materiale utile per ottenere i migliori risultati dei suoi vigneti e delle sue terre in genere. Le sue viti erano rigogliose e gli avrebbero garantito una buona produzione per l’anno seguente. Non voleva perciò far mancare la sua partecipazione al concorso, che metteva a disposizione ben tremila lire “fra i migliori vivai di viti americane resistenti, piantati da Corpi Morali o da privati entro il 1901”, i cui prodotti fossero destinati alla vendita. E tutto tornava a suo favore! “Il vivaio concorrente dovrà avere una estensione non inferiore ai 4000 mq”: Francesco vi partecipò figurando come proprietario di più vivai, visto che aveva già disposto di riservare un appezzamento alle piante madri produttrici di talee, uno a barbatellaio per le viti non innestate ed uno per viti locali innestate. E siccome nessuno sapeva che egli aveva già fatto gli innesti, li avrebbe fatti figurare, come da regolamento, nel 1901. Erano in palio mille e cinquecento lire. Ed altrettante per i vigneti. Nel 1905 Francesco venne premiato con 1250 lire: quasi la metà del monte premi.
Padre di otto figli, di cui tre maschi, garantiva alla dinastia lunga vita, nonostante le vicissitudini del tempo e della storia.
Le battaglie non erano mancate mai, ma la famiglia era lì, a testimoniare che, quando si vuole il bene, si sopravvive sempre.
La figlia più giovane di Francesco si chiamava Metina, un nome che doveva derivare per forza da qualche antico segreto tramandato sul letto di morte da padre in figlio. Nessun altro in famiglia era stato chiamato così, se non questa figlia femmina, che era nata, dopo un esercito di maschi, per ultima. Come poi i Vestali sapessero che Metina sarebbe stata l’ultima nata, era un enigma. Ma si mormorava solo quel nome e quel genere, forse perché era femmina, forse per una sorte oscura di cui nessuno voleva parlare.
Nemmeno la madre, Vincenza Bellardi, sapeva il vero perché di quel nome.
…
Fu al Vecchia Praga che la conobbi, mi sembrava per caso, dopo che ne avevo sentito a lungo parlare e dopo una presentazione di sfuggita al Caffé della Stampa. Aveva organizzato un’esposizione di quadri di una pittrice sua amica, di comune accordo con Tiziano che, in quei giorni, era entusiasta per la sua idea delle “santelle”, con tutti i bar del centro aperti, i tavolini fuori e le strade chiuse al traffico.
Per questo, alla morte di Tiziano, pensai di telefonarle per darle, purtroppo, la brutta notizia.
Fu così che ci incontrammo di nuovo, per ricordare quello che era un amico, anche se lo conoscevi da un minuto, per parlare di poesia, io poeta e lei poeta.
Mi guardava con intensi occhi scuri che, mano a mano, si impadronivano dei miei, azzurri; e, all’improvviso, mi chiese: “Ha mai sentito parlare di una certa Metina?”. Non sapevo cosa rispondere. Il cuore cominciò a tamburellare all’impazzata e il senso di disagio riprese a farsi largo, come se il tempo si fosse fermato sui colpi di scena della mia vita. La donna fatale, che scoprii di avere dinanzi, cambiò subito discorso, cominciando a parlare di una nuova raccolta di poesie, in lingua italiana e bresciana. Era di nuovo un giorno sei.
Se avevo sentito la mancanza di una persona forte accanto a me, nelle traversie della vita, qualche volta, ora ero già certo di averla trovata.
Una persona che, senza che lo sapessi, stava percorrendo un pezzo di strada con me. Bella forza, verrebbe da pensare: tutti stiamo camminando nella stessa direzione e lo facciamo tutti insieme, volenti o nolenti. Eppure, ci sono delle persone che camminano proprio sui nostri stessi passi, vivendo una sorta di vita parallela. Sono come degli angeli che hai accanto e non lo sai. È come se con loro tu stessi percorrendo una strada in due, con tanto di strisce pedonali e di marciapiedi che non hanno barriere architettoniche.
Di nuovo, lasciando cadere la frase nel mezzo del nostro incontro, quasi le fosse casualmente uscita di bocca, virando il discorso come un’imbarcazione a vela in un mare in tempesta -che ero io in quel momento- aggiunse: “Ho scoperto da poco di chiamarmi Metina, che è poi il mio secondo nome”.
Metina non era rimasta solo mia mamma, quindi; e se il ricordo evocato dal nome era di una maledizione, ero certo che ora, al suo posto, avevo trovato lo spazio temporale positivo. Il tempo aveva riacquistato il suo ticchettare regolare e potevo azzardare la titubante domanda.
“Conosce l’origine del nome?”.
“Forse ci siamo conosciuti perché lo dovevo rivelare a lei!”, rispose sorridendo.
Era lei la storia dei miei cari, lei che aveva la forza e il coraggio di riannodare gli episodi di una vita e di trovarvi una traccia che fosse il senso delle carte del tempo, che fosse il senso da raccontare. Che avesse un senso da raccontare. Perché ogni vita vale per sé, e ogni famiglia ha le sue maledizioni e le sue benedizioni. Ogni pieno vuole il suo contrario, recitano i saggi. Ed era arrivato il momento di tramutare Metina in una fiaba solare. Proprio come la donna che mi stava parlando. Perché è inutile perpetuare nel tempo il Male. Se non lo si traduce nel suo contrario, non si è riusciti a sistemare niente.
Ed ora… Sono ancora qui, sul terreno dei miei cari, a raccontarmi una storia come se fosse un libro, un romanzo, di cui ho trovato le tracce il giorno in cui l’ho avuto in regalo tra le mani, con la parola fine.